L’odissea delle donne africane tra guerre, stupri e disperazione

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Speciale per Africa ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena, 21 gennaio 2016

31 ottobre 2014: a Tabit, un remoto villaggio del nord Darfour, oltre duecento donne vengono stuprate dall’esercito sudanese. Parte un’inchiesta dell’ONU, i caschi blu naturalmente sono accompagnati da funzionari governaivi e militari sudanesi, per intimidire la popolazione a non parlare. Nulla doveva trapelare di quella notte. L’inchiesta viene stroncata sul nascere, vietato approfondire. Il vice-ministro degli esteri sudanese, Abdalla al-Azrag, fa sapere al segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon, di cercare altrove e aggiunge: “I nostri uomini non commettono certe nefandezze”.

Memoria corta la sua. Non si ricordava delle atrocità commesse dal suo esercito o dalle milizie paramilitari organizzate dal suo governo, i terribili janjaweed, i “diavoli a cavallo” che terrorizzavano le popolazioni civili, uccidendo gli uomini, rapendo i bambini e violentando le donne. Forse Azrag non si rammenta nemmeno che sul suo presidente, Omar al Bashir, pende un mandato d’arresto, spiccato dalla Corte penale internazionale dell’Aja nel 2009 per crimini commessi nel Darfur, per cinque capi d’accusa, compreso quello per stupro.

La violenza subita dalle donne di Tabit non è un fatto isolato. Succede quasi ogni giorno, in qualsiasi parte del mondo dove ci sono guerre o conflitti interni.

La donna ancora oggi è considerata come parte integrante del bottino, un oggetto che si usa, per poi gettarlo via.

VIOLENZA

Non è necessario allontanarsi di molto per vedere cosa succede nel Sud Sudan, il più giovane Stato del pianeta, che ha raggiunto l’indipendenza dal Sudan solo nel 2011. Dal 15 dicembre 2013 vi si combatte una crudele guerra civile, una lotta di potere tra il presidente Salva Kiir (etnia dinka) e il suo ex-vice Riek Machar (etnia nuer). Hanno ridotto gran parte della popolazione alla fame, alla disperazione e il peso maggiore, il dolore più grande, grava sulle donne.

Anna, nuer, confessa di essere dovuta scappare dal suo villaggio. “Una mattina sono arrivati i soldati governativi. Hanno cacciato via i nostri uomini; poi hanno iniziato a picchiarci, a bruciare le nostre case. Hanno stuprato mia figlia davanti ai miei occhi. Ora viviamo nel campo dell’ONU, ma le donno non possono uscire dal campo. Le rapiscono, le prendono, abusano di loro. Dopo uno stupro di massa, non si riesce più a stare in piedi, è come una lenta agonia, una sofferenza atroce. I soldati non usano armi da fuoco con noi donne, ma ci lasciano mezze morte, buttate per terra, soffocate dal dolore e con l’anima a pezzi. Se fossimo morte durante la fuga, forse sarebbe stato meglio”.

“#BringBackOurGirls”, l’hashtag che ha invaso le bacheche dei social network per alcune settimane poco meno di due anni fa, è scomparso da tempo. Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2014 sono state rapite 276 studentesse in un collegio a Chibok, nel nord-est della Nigeria, patria dei famigerati settari jihadisti Boko Haram. La maggior parte delle ragazze sono ancora in mano ai loro aguzzini, poche sono riuscite a scappare, ancora meno sono state liberate. Le studentesse sono state portate via nel mezzo della notte dai loro dormitori. Ragazze intelligenti, che sognavano un futuro e avevano riposto la loro fiducia nello studio. Ed è proprio questa la loro “grave colpa”.

Infatti, Boko Haram, tradotto liberamente dalla lingua Haus,a significa: “L’educazione occidentale è peccato”.

Proviamo solo a immaginare cosa succede alle giovani donne e alle ragazze in mano ai militanti jihadisti: stupri di massa, costrette a sposare i loro aguzzini, e, come gli uomini, sono costrette a convertirsi all’islam e, dopo un breve, ma intenso addestramento, sono obbligate a partecipare alle incursioni dei terroristi ed ammazzare la propria gente, familiari compresi, nei loro villaggi.

DONNA PROTESTA

Nella Repubblica centrafricana si consuma un conflitto interno dalla primavera del 2013. Una guerra di “religione” tra musulmani (ex-Séléka) e cristiani e animisti (anti-balaka). La sofferenza di questo popolo è passato quasi inosservato dai media, salvo un piccolo flash a fine novembre in occasione della visita di papa Bergoglio, che ha voluto aprire la Porta Santa della cattedrale di Bangui, la capitale del Paese.

Terribili le violenze che si sono consumate nella ex-colonia francese. Accuse forti sono state rivolte anche al contingente di pace dei caschi blu, che, secondo testimonianze attendibili, avrebbero abusato di bambini e violentato ragazze minorenni, in cambio di un tozzo di pane e qualche soldo.

Un’altra arma micidiale è la fame: lasciare buona parte di una popolazione con poco o niente cibo, uccide più di una pallottola. Il fucile può sbagliare il bersaglio, si rischia di “sopravvivere”, la fame no, quella non aspetta, uccide.

Mousa di tre anni e Mohammed di cinque sono morti di fame nella città di Bodo, che dista un centinaio di chilometri da Bangui. Gli anti-balaka hanno vietato di vendere cibo ai musulmani. La mamma dei due bimbi non ha nemmeno la forza di piangere. A malapena si regge in piedi dalla debolezza.

Sono proprio le guerre, i conflitti, l’oppressione che spingono molte donne a lasciare il proprio Paese, gli affetti più cari e tentare la fuga verso l’Occidente, pur sapendo che questo viaggio non sarà proprio una passeggiata. Spesso sole, attraversano mezzo Continente per raggiungere le coste libiche . Durante il lungo cammino sono preda facile dei trafficanti o di gruppi armati. Sono esposte a mille pericoli: la loro unica forza è la speranza di trovare un briciolo di libertà altrove, per loro, per i figli.

Tutte queste donne portano cicatrici devastanti nell’anima. Il loro dolore è nascosto nel profondo del loro cuore. Non c’è tempo per piangere, bisogna continuare a vivere, far crescere i figli, amarli teneramente malgrado tutto, anche se sono il frutto delle violenze subite.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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