Bashir rieletto presidente del Sudan mentre aumenta la violenza contro i profughi eritrei

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Speciale per Africa-ExPress
Cornelia I. Toelgyes
Quartu Sant’Elena 4 maggio 2015

Omar Hassan Al-Bashir, ormai settantunenne, ha “vinto” nuovamente le elezioni presidenziali in Sudan con il 94,5 per cento dei voti, anche se l’affluenza questa volta è stata assai bassa, come ha dichiarato un membro della commissione degli osservatori elettorali dell’Unione Africana, capeggiata dall’ex-presidente nigeriano Olusegun Obasanjo. Infatti, l’opposizione ha boicottato le elezioni, come aveva già fatto nel 2010.

I sudanesi aventi diritto al voto sono tredici milioni, pare che solo il 30-35 per cento si sia recato alle urne.  Ma Mukhtar al-Assam, direttore della commissione elettorale indipendente sudanese ha affermato senza esitazioni che l’affluenza è stata del 46 per cento.

CAMPO 1

Bashir è ricercato dal Tribunale Penale internazionale per crimini di guerra e genocidio. Le indagini sono state sospese (la decisione è fortemente contestata dalle organizzazioni per i diritti civili e umani) ma il mandato di cattura è ancora valido. Dal canto suo la procuratore generale del TPI, Fatou Bensouda, ha criticato l’ONU, perché il Consiglio di Sicurezza, del quale fanno parte  anche Russia e Cina, non ha mai appoggiato l’inchiesta in corso.

Il voto in Sudan è stato fortemente stigmatizzato dai governi occidentali e dalle organizzazioni per i diritti umani. E’ triste dover constatare che un dittatore, accusato di crimini efferati, abbia vinto le “libere e democratiche” elezioni nel suo Paese. Un despota che, alla fine dello scorso anno, ha chiesto ai caschi blu dell’ONU di lasciare il Darfur.

Pochi giorni
prima dell’apertura dei seggi elettorali sono stati arrestati e picchiati brutalmente decine e decine di oppositori, attivisti e studenti. In un comunicato congiunto degli USA, Gran Bretagna e Norvegia hanno scritto: “Il risultato di queste elezioni non può essere ritenuto come credibile espressione del popolo sudanese”. Poco prima del voto Federica Mogherini, commissario agli esteri dell’Unione Europea, aveva fatto sapere: “Il risultato non potrà essere credibile, perché non è legittimato dai cittadini sudanesi”.

bimbi in pozzanghera

Sorge dunque spontanea la domanda: nella situazione attuale il “Processo di Khartoum”, avviato dal governo italiano ha ancora un senso? Anzi c’è da chiedersi se mai lo abbia avuto. Si spera pertanto che la proposta del ministro degli interni, Angelino Alfano, di voler aprire dei campi per profughi in Niger e Sudan, Paesi corrotti fino al midollo e dove i diritti umani sono un raro optional, dopo queste ridicole elezioni e la relativa condanna da parte di molti governi occidentali, venga definitivamente archiviata.

Inoltre, in Sudan, al confine con l’Eritrea, esiste già un campo per profughi, Shagarab, dove vivono più o meno ventinovemila persone, per lo più eritrei. E’ tristemente famoso per la sparizione e il sequestro di molte persone da parte dei rashaida (una tribù che vive a cavallo tra Sudan ed Eritrea, e che si occupa prevalentemente di commercio internazionale compreso il traffico di esseri umani) in collaborazione con le forze dell’ordine sudanesi. In passato molti dei rifugiati rapiti venivano venduti ai beduini nel Sinai

Oggi i sequestri e rapimenti avvengono per lo più nelle vicinanze di Kassala, città nell’est del Sudan, al confine con l’Eritrea.  Sempre più spesso i malcapitati profughi varcano il confine e vengono sequestrati dai rashaida, con l’aiuto di agenti della polizia sudanese corrotti e/o in collaborazione con militari o spie del governo eritreo.

Dallo scorso gennaio numerosi bambini – in tenera età e non ancora adolescenti – lasciano l’Eritrea da soli, diventando profughi “minori non accompagnati”.

Anche loro sono soggetti a rapimenti e torture da parte di barbari trafficanti di uomini. Sequestrano gruppi di rifugiati che, mentre stanno subendo una tortura, sono costretti a chiamare i familiari. Urlano e si lamentano al telefono per costringere i congiunti a pagare un riscatto. Le richieste non sono consistenti come nel Sinai (dove sono arrivati a chiedere fino a 60.000 dollari a persona), perché “la merce umana” a disposizione è tanta. Dunque pro capite ci si accontenta di meno: dai mille ai millecinquecento dollari, più o meno. Ma può comunque capitare che dopo il pagamento di un primo riscatto non si venga liberati, bensì venduti ad un altro gruppo di trafficanti; e così ricomincia la trafila di torture, botte e pagamenti.

L’Eritrea è diventato un Paese invivibile. Spesso scompaiono le persone, non si sa dove, probabilmente nelle luride galere del regime di Isais, che ha militarizzato tutto il Paese, pur avendo solennemente promesso di voler ridurre il servizio militare a soli diciotto mesi. In un comunicato di poche settimane fa, poi ripreso da radio Erena.

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il dittatore di Asmara ha annunciato che tutte le donne dai 18 ai 45 anni avrebbero dovuto presentarsi in caserma il 25 aprile, per una nuova tornata di addestramento militare. Stessa cosa alcuni mesi fa per gli uomini, ma loro fino a 65 anni. Poche donne si sono presentate all’appello quel giorno, dunque è probabile che venga indetta un’altra chiamata, ma nel frattempo si temono retate, rastrellamenti a tappeto. Qualsiasi dimostrazione o manifestazione pubblica è vietata. L’insicurezza del regime è tangibile.

Ritornando al dramma dei migranti, una volta giunto in Sudan il profugo eritreo deve trovare un rifugio sicuro presso amici o parenti prima di proseguire il suo viaggio verso la tanto sospirata e sognata costa libica per potersi poi imbarcare verso l’Occidente. Tanti sono ancora i pericoli in agguato, comprese le razzie delle forze dell’ordine a Khartoum e in altre città sudanesi che spesso arrestano per immigrazione clandestina chi scappa dall’ex colonia italiana. Il rischio inoltre è di essere rispediti in patria.

Per affrontare il viaggio verso la Libia, ci si deve affidare a nuovi trafficanti. Altro denaro da sborsare mentre il pericolo di essere rapito, ucciso, arrestato durante il viaggio è sempre in agguato. Non si muore solo nel mare. I pescecani ci sono anche nel deserto. Predoni, gente senza scrupoli che ti abbandona senza cibo né acqua, bande armate di regolari o irregolari, o “semplici” incidenti stradali. A proteggere i profughi non ci sono organizzazioni come la Croce Rossa o l’UNHCR. Per riuscire a raggiungere la costa ed evitare il peggio occorre ancora pagare.

Invece di affrontare il problema in modo superficiale sarebbe bene chiedersi perché si fugge, intervenire in modo mirato nei Paesi d’origine, proteggere la popolazione dai propri governi. Bombardare i barconi nei porti libici non porta a nessuna soluzione.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
@cotoelgyes

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