Sud Sudan, stallo nelle trattative mentre si aggrava la crisi umanitaria

Dal Nostro Inviato Speciale
Bianca Saini
Nairobi, 12 agosto 2014
Domenica 10 agosto avrebbe dovuto essere il giorno della chiusura della crisi in Sud Sudan, con la formazione di un governo di transizione concordato tra i due schieramenti in conflitto, quello del presidente Salva Kiir Mayardit (SPLM – Juba faction) e quello dell’ex vice presidente Rieck Machar  Teny Dhurgon (SPLM in opposition, SPLM-IO). Il giorno della scadenza era stato deciso ad Addis Abeba il 10 giugno scorso al tavolo delle trattive di pace coordinate dall’organizzazione regionale dell’IGAD, sulla base di un accordo firmato da Kiir e Machar il 10 maggio.

Invece nei 60 giorni in cui i lavori avrebbero dovuto essere pressanti per trovare soluzioni condivise ai molti e scottanti problemi sul tappeto, le due parti non si sono praticamente mai incontrate per questioni procedurali. Infatti l’SPLM-IO ha prima contestato la selezione dei rappresentanti della società civile invitati a partecipare ai negoziati e poi, il 4 agosto, giorno della ripresa delle trattative, ha respinto la composizione  del tavolo stesso, sostenendo che l’accordo per la fine delle ostilità deve essere trovato tra le due parti belligeranti, mentre gli altri attori avrebbero dovuto entrare in gioco solo al momento della discussione sul governo di transizione e sulla soluzione degli altri nodi politici aperti, quale l’assetto istituzionale e il ruolo che gli stessi Kiir e Machar saranno, o non saranno, chiamati a svolgervi.

Chiare sono state le resistenze alle pressioni della comunità internazionale per chiudere velocemente la crisi, che invece, a parere dell’opposizione, necessità di tempi più lunghi per maturare soluzioni durature, che permettano di rimettere in moto lo sviluppo socio-economico e la vita politica del paese. Kiir invece si appella al fatto che il suo mandato non è ancora finito, dunque non c’è bisogno di un governo provvisorio, essendocene già uno perfettamente legale in carica.

Nelle scorse settimane in Sud Sudan molto si è parlato di soluzione federale alla crisi, con i tre governatori degli stati dell’Equatoria in primo piano nel proporre l’idea e gruppi di giovani e di associazioni della società civile anche di altre zone del Paese che la sostengono, mentre il presidente e il governo in carica la respingono duramente. Negli ultimi giorni è poi diventata pubblica la proposta, probabilmente avanzata durante le negoziazioni, sull’introduzione della figura del primo ministro, carica attualmente non esistente nell’ordinamento sud sudanese.

Kiir ha dichiarato la sua posizione in un discorso tenuto al suo rientro dagli Stati Uniti, dove aveva partecipato al summit dei Paesi africani: non se ne parla nemmeno – ha detto in sostanza -; se si deve trovare un incarico istituzionale a Machar, si potrebbe introdurre la carica di secondo vicepresidente, dopo il primo, che rimarrebbe l’equatoriano James Igga Wani. Se questo non gli sta bene, bisogna aspettare le prossime elezioni, che determineranno chi sarà il futuro presidente. E’ chiaro che il dibattito è solo all’inizio e le posizioni ancora molto distanti.

Nonostante le dichiarazioni forti, la posizione di Kiir sembra diventare di giorno in giorno più debole. Nei giorni scorsi una parte della leadership dell’SPLM negli Stati Uniti e in Canda, paesi dove la diaspora sud sudanese è numerosa e influente, è passata all’opposizione, e ne ha chiesto le dimissioni. Continuano anche le defezioni nelle fila dell’esercito. Ultimo, nei giorni scorsi, il generale Dau Deng Ahecyol, vice capo di stato maggiore nello stato di Jonglei, tra i più martoriati dalla guerra civile in corso. Ma sembra siano molti anche i soldati semplici che disertano perché non vengono pagati regolarmente.

Negli ultimi mesi il governo di Juba ha potuto far fronte ai bisogni della guerra e della gestione della macchina dello stato chiedendo prestiti alle compagnie petrolifere, a valere sulle future royalty, ma l’ultima richiesta è stata respinta perché l’impegno è già troppo rilevante, il che significa molti meno fondi a disposizione per sostenere la macchina bellica.  Dunque si può purtroppo prevedere che il problema delle diserzioni anche tra i soldati semplici si aggraverà e contribuirà a rendere la situazione sul campo sempre più incontrollabile, con bande armate che non rispondono che a se stesse.

Se ne è avuto un assaggio la scorsa settimana nella contea di Maban, stato dell’Upper Nile, dove una milizia locale si è scontrata prima con l’esercito regolare e poi ha attaccato gli operatori umanitari sud sudanesi impiegati nelle operazioni di soccorso a oltre 120.000 profughi sudanesi provenienti dal Blue Nile. Almeno sette sono stati uccisi a sangue freddo, perché appartenenti al gruppo etnico Nuer.

Questo ha determinato l’evacuazione di oltre 200 operatori umanitari e la riduzione drastica dei già scarsi servizi ai profughi, che si trovano così presi tra due fuochi, in difficoltà estrema per la loro stessa sopravvivenza. La missione di pace, UNMISS United Nations Mission in South Sudan) finora non presente nella zona, ha dovuto affrettarsi a mandare un contingente per controllare la situazione.

Intanto Machar continua il suo attivismo diplomatico. Nelle ultime settimane ha incontrato i presidenti dei paesi IGAD ed è stato in Sud Africa. Ultima visita, ma certamente non la meno importante, a Khartoum, dove, domenica 10 agosto, ha incontrato il presidente sudanese Omar Al Bashir. La visita è stata a lungo annunciata, diverse volte rimandata e vista con molto sospetto dal governo di Juba. Le dichiarazioni ufficiali finali sono state, come è naturale, molto pacate: Bashir ha espresso  il suo completo appoggio alle posizioni discusse sul tavolo negoziale dell’IGAD, mentre Machar ha sostenuto una maggiore presenza di Khartoum nelle trattative, prevedendo che un’intermediazione diretta potrebbe essere positiva, per l’esperienza dovuta alla storia recente dei due paesi.

Si può scommettere, però, che, a porte chiuse, si sia parlato anche, se non soprattutto, di altro, e in particolare del sostegno alla ribellione, sempre negato ma non così improbabile, anche perché l’esercito di Kiir ha avuto l’aiuto documentato, seppur ufficialmente e ovviamente negato, dell’opposizione armata sudanese e si sa che sui confini africani l’amico del mio nemico è mio nemico e viceversa. E si sarà parlato anche del petrolio, dell’operatività e della sicurezza dei pozzi anche durante il conflitto e forse anche del destino di alcune aree petrolifere contestate, Abyei in particolare.

Mentre la soluzione della crisi sembra essere ancora lontana, è in peggioramento costante la situazione umanitaria. All’emergenza dovuta al conflitto, che ha causato un milione e mezzo tra sfollati e rifugiati, si aggiunge ora l’emergenza dovuta ad una stagione delle piogge con precipitazioni particolarmente abbondanti, che hanno reso impercorribili le strade di vaste regioni ed hanno trasformato in acquitrini molti campi profughi, non solo nella fascia settentrionale del paese, quella più devastata dal conflitto (il caso più drammatico è il campo per la protezione dei civili di Bentiu, dove da settimane 40.000 persone vivono con l’acqua al ginocchio) ma nella stessa capitale, Juba.

La situazione di insicurezza e l’impraticabilità delle strade rende difficilissimo portare soccorso alla popolazione, stremata da otto mesi di guerra civile  durissima. In molte aree del paese ormai si è in una fase di pre-allarme carestia. L’allarme vero e proprio potrebbe scattare da un momento all’altro.

Bianca Saini
biancasaini2000@gmail.com

Nelle foto: il campo di Bentiu invaso dall’acqua, Salva Kiir, Riek Machar, la mappa della crisi umanitaria e un soldato

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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