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Etiopia e Kenya cercano di mediare in Sud Sudan, ma la guerra continua

Massimo A. Alberizzi
27 dicembre 2013
Il presidente kenyota Uhuru Kenyatta e il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn sono volati a Juba per convincere i protagonisti della guerra in corso in Sud Sudan, il presidente Salva Kiir e il suo ex vice licenziato in luglio, Riek Machar, di sedersi al tavolo delle trattative, far tacere le armi e bloccare le atrocità. Un’impresa abbastanza complicata perché ormai tutto il Paese è in fiamme.

Bor, la capitale del Jonglei State, è ancora nelle mani dei ribelli di Machar, e così Bentiu, capitale dell’Unity State. Bor è circondata dalle truppe governative i cui portavoce ogni giorno annunciano: “E’ questione di ore ricattureremo la città”. Alla sua periferia ci sono scontri e scaramucce che rischiano ogni momento di trasformarsi in furibonda battaglia.

Bentiu è un importante centro petrolifero e li la situazione è calma. I governativi sembrano lontani e i pozzi continuano a produrre. La situazione, invece si è aggravata a Malakal, capoluogo dell’Upper Nile, dove è in corso una battaglia per il controllo della città.

Le Nazioni Unite hanno annunciato che i rinforzi dei caschi blu dovrebbero arrivare entro in fine settimana, ma non è semplice assemblare un contingente militare e spedirlo in Sud Sudan in così breve temo. D’altro canto per la protezione di civili è necessaria la presenza di forze fresche. L’Onu ha fatto marcia indietro sulle fosse comuni a Bentiu, la loro scoperta, da parte dei caschi blu era data per certa: “Non abbiamo la possibilità di fare delle verifiche come riportato in un primo tempo. Scusate si è trattato di un errore dovuto alla cattiva interpretazione di un messaggio”, si è giustificata Hilde Johnson, inviata speciale dell’ONU in Sud Sudan. Si può tirare un sospiro di sollievo perché le fosse comuni ora sono solo un sospetto, ma è una magra consolazione. Le campagne, come rivelano alcuni viaggiatori, sono punteggiate di cadaveri: civili uccisi per pura vendetta, a prima vista, a sangue freddo.

Parlando con i giornalisti via video da Juba, Hilde Johnson ha chiesto ai leader politici del Paese di dare una chance alla pace. “E’ in gioco il futuro del vostro Paese nato dopo decenni di guerra”, ha detto tra l’altro. Dal 15 dicembre, giorno dello scoppio della guerra civile – ha rivelato la signora – sono morte almeno mille persone.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

maxalb

Corrispondente dall'Africa, dove ho visitato quasi tutti i Paesi

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