Congo-K, il pasticcio delle adozioni

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Nostro Servizio Particolare
Cornelia I. Toelgyes
15 dicembre 2013
Sono ancora 24 le coppie italiane che da un mese – alcune anche di più – attendono a Kinshasa, capitale del Congo-K, un timbro, sì un semplice timbro, ed una firma che completi il lungo iter dell’adozione internazionale. Nel Paese africano operano tre organizzazioni non governative italiane, AiBi, I Cinque Pani, ENZO B Onlus, e, le due famiglie contattate da noi nella capitale dell’ex colonia belga (una assistita dalla Enzo B Onlus, l’altra da AiBi), sono soddisfatte dell’assistenza in loco delle ong alle quali si sono appoggiate. Tralasciamo i loro nomi per una questione di privacy nei confronti dei loro figli, che – speriamo – possano raggiungere presto l’Italia insieme a loro.

Le coppie erano 26. Due di esse, che si erano appoggiate ad un quarto ente autorizzato ad operare in Congo, il Naaa (Network, aiuto, assistenza, accoglienza), sono riuscite rientrare in Italia con i loro bimbi.

Le altre tre associazioni si chiedono come sia stato possibile e ce lo chiediamo anche noi, seppur la risposta sembra a portata di mano: una maggiore capacità di contrattazione.

La legge sulle adozioni internazionali è in vigore dal 1983, anche se, ovviamente con il passare degli anni ha subito alcune modifiche. Il nostro paese è anche firmatario della convenzione dell’Aja sulle adozioni internazionali del 1993. Non tutti l’hanno controfirmata, per esempio la Repubblica Democratica del Congo.

Le organizzazioni che si occupano delle adozioni internazionali devono essere autorizzate da un’apposita commissione, che fa capo al Consiglio dei ministri; esiste un albo specifico dove sono elencate. La commissione fissa anche le tariffe per le loro prestazioni. Riassumendo, se un’organizzazione è iscritta a tale albo gode della piena fiducia del nostro governo. Ora non è un segreto che un’adozione internazionale ha un prezzo. Desiderare un figlio non biologico è un lusso non alla portata di tutti. Donare amore, quello più genuino, ha prezzi esorbitanti.

Sappiamo anche che in passato molte adozioni nella Repubblica Democratica del Congo sono andate a buon fine, come precisa anche il ministro Cécile Keyenge, che qualche settimana fa si è recata in loco, cercando di trovare una soluzione per le famiglie italiane in attesa nella capitale Kinshasa, nel tentativo di ottenere il visto d’uscita per i loro figli. Un’attesa infinita per le famiglie per un “semplice timbro” che rappresenta l’ultimo anello di un lungo iter burocratico – e non solo – dovuto ad un blocco delle adozioni da parte del governo congolese.

Giustamente le famiglie che si sentono abbandonate laggiù dalle nostre istituzioni, si sono rivolte a chi li/ci rappresenta. Lia Quartapelle, parlamentare PD due giorni fa ha presentato un’interrogazione al nostro governo a questo proposito. Cécile Keyenge ha risposto ampiamente a tale quesito, ma ha sottolineato che è responsabilità delle famiglie che si sono recate laggiù malgrado il blocco sulle adozioni.

Ora, giustamente Lia Quartapelle replica che le famiglie non possono essere abbandonate a se stesse. Una trattativa a livello diplomatico ad altissimo livello è indispensabile. Un’adozione è paragonabile ad una gravidanza ad alto rischio. I futuri genitori sono disposti a sottoporsi a sacrifici inimmaginabili pur di “partorire” quel figlio dell’amore, con la differenza che durante una gravidanza biologica i genitori, in particolare la madre, sono assistiti da medici, che hanno peraltro prestato il giuramento di Ippocrate – mentre per le “gravidanze non biologiche” si è costretti ad affidarsi alle “cure” di associazioni, delle istituzioni, dei governi, che non hanno giurato di salvaguardare la vita altrui.

Cornelia I. Toelgyes
corneliacit@hotmail.it
twitter @cotoelgyes

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