Il dramma degli sfollati in Sud Sudan alla ricerca dei figli perduti durante la fuga

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Dal Nostro Inviato
Massimo A. Alberizzi
Kangul (Sud Sudan), 21 settembre 2014

Nyandoang ha un’età indefinita. Lei stessa non sa bene quanti anni ha; ne dimostra poco più di trenta. Davanti al tavolino organizzato dall’UNICEF nel bel mezzo del niente in Sud Sudan, si sta registrando perché cerca i suoi due figli, Wil, 3 anni, e Majan, 5, entrambi maschietti. Li ha persi quando è scappata da Bor subito dopo lo scoppio della guerra civile, nel dicembre scorso. “Avevo lasciato i miei due ragazzini da mia sorella, che vive a Juba (la capitale, ndr). Volevo che andassero a scuola. Io e mio marito stavamo a Bor. Lui è militare. Quando vicino a casa nostra hanno cominciato a combattere siamo scappati fuori città, cercando scampo nelle campagne. Anche mia sorella è fuggita da Juba ma non sappiamo dove sia andata. Dovrebbe aver portato con sé i miei due figli. Ma chissà dove. Sono disperata”. E Nyandoang scoppia a piangere.

Al desk cerca figlioSono tante le madri che si affollano attorno ai funzionari dell’UNICEF incaricati dei ricongiungimenti, cioè di far ritrovare e mettere assieme frammenti di famiglie che sono dispersi. Le storie che raccontano sono tutte simili: “Io e mio marito siamo scappati da Malakal di notte – ricorda Nyatorik, che sostiene di avere 45 anni, ma probabilmente ne ha meno anche se ne dimostra di più – . I militari leali al governo sono entrati nelle case vicine e hanno ammazzato tutti quelli che trovavano. Prima che arrivassero alla nostra porta siamo fuggiti con i nostri sei figli. Abbiamo lasciato lì tutto quello che avevamo. Era buio e procedevamo in silenzio per evitare di essere scoperti. Non eravamo soli; a noi si è unita tanta gente che cercava di mettersi in salvo. Alle prime luci dell’alba ci siamo accorti che la piccola Nyaratadiet, 5 anni, era sparita. L’abbiamo cercata, chiamata, mio marito è tornato indietro per un po’. Niente”.

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Ai punti di raccolta delle denunce ci sono solo le madri, niente padri. I pochi uomini che bazzicano l’ampio spiazzo alberato dove sono stati sistemati i tavolini sono alla ricerca delle mogli: “Aiutavo i nostri bambini nella notte – racconta Charles Mut – . Erano stanchi e affaticati. Io sono rimasto indietro con loro e Lucy è andata avanti con il più grande al quale ho raccomandato di badare alla mamma e di aspettarmi alla prima area in cui erano sicuri che non li avrebbero attaccati. Lì sono arrivato anch’io il giorno seguente, ma non li ho trovati. Spero che l’UNICEF che ha organizzato queste ricerche riesca a trovarlo”. Era dicembre e la famiglia era scappata da Bor dove Charles faceva il muratore. Ora non ha più un lavoro e, senza soldi e disperato, vaga di campo in campo alla ricerca di Lucy.

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“Era gente dispersa in questa zona, scappati dalla guerra non sapevamo dove fossero, né come raggiungerli – spiega Inma Vazquez, esperta di Echo, l’agenzia per l’aiuto umanitario dell’Unione Europea che ha finanziato questo progetto con 8 milioni di euro -. Non avevamo idea di dove fossero. Abbiamo così creato un gruppo che si occupasse di una risposta rapida alla crisi di cui avevamo notizia ma che non potevamo affrontare con i mezzi normali”.

vaccinazioneL’area è remota, senza linee telefoniche, in una zona dove i combattimenti possono scoppiare improvvisamente. Sono stati inviati due gruppi incaricati di individuare dove fossero gli sfollati. Una volta trovati si è messa in voto la macchina degli aiuti: “Prima di tutto cibo e purificatori d’acqua poi vaccini e supplementi nutrizionali per i bambini e infine i ricongiungimenti familiari. La gente è scappata da casa come poteva: abbiamo individuato moltissimi bambini sena genitori e genitori senza i loro figli”, aggiunge Inma Vazquez.

L’altro ieri, il primo giorno di lavoro per il team  sono state registrate 2682 persone, compresi 491 bambini sotto i cinque anni. Il secondo giorno il totale è arrivato a 8.951. In due giorni sono stati visitati 423 bambini tra i 6 e i 59 mesi. Due sono stati salvati perché severamente malnutriti stavano per morire. 623 ragazzini sotto i 15 anni sono stati vaccinati contro il morbillo e 491 contro la poliomielite.

A Kagul la situazione sanitaria è disastrosa. “Siamo nella stagione delle piogge e non si scavano pozzi – spiega Peter Gay Dual uno dei capi villaggio -. La gente bene l’acqua prendendola direttamente dalle pozzanghere”. Si possono immaginare le conseguenze sulla salute.

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Quella dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite e delle agenzie non governative è anche una lotta contro il tempo. I combattimenti potrebbero riprendere da un momento all’altro, più probabilmente tra un paio di settimana alla fine della stagione delle piogge. E allora questa gente sarebbe costretta a scappare di nuovo con conseguenze umanitarie disastrose.

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Kangul si trova nel distratto di Pathai in una zona controllata dai ribelli del SPLA-iO (Sudan People Liberation Army in Opposition), di etnia nuer. Il 15 dicembre scorso nel Paese più giovane del mondo (ha ottenuto l’indipendenza il 9 luglio 2011) la guerra civile ha spezzato tutti i sogni di democrazia, pace, sviluppo che avevano esaltato la comunità internazionale. Il presidente Salva Kiir Mayardit, di etnia dinka, ha accusato il suo vicepresidente che aveva licenziato nel luglio precedente, Riek Machar Teny, di aver ordito un colpo di stato. E’ apparso in televisione per la prima volta in uniforme mimetica da guerra (lui che porta sempre un cappellaccio da cowboy) e ha scatenato la guerra. A Juba, la capitale del Sud Sudan, è cominciata la mattanza dei nuer. I soldati dinka sono andati casa per casa, passando per le armi tutti i nuer che capitavano tra le loro mani. Stessa cosa nelle altre città, Bor, Malakal, Wau, Rumbek. Come sempre accade in questi casi, nelle zone a maggioranza nuer sono stati i dinka ad avere la paggio: massacrati.

Ma attenzione a non commettere l’errore di considerare questo conflitto come una guerra etnica. In palio ci sono i pozzi di petrolio che i dinka intendono controllare totalmente e temono possano essere sottratti dalle loro mani. Tra l’altro molti dinka, compresi la vedova del padre della nazione, John Garang, e il loro figlio Mabior, sono schierati con i nuer di Riek Machar. Gli shilluk, che rappresentano la terza grande etnia Sud Sudan, per ora, neutrali, stanno a guardare.

Massimo A. Alberizzi
massimo.alberizzi@gmail.com
twitter @malberizzi

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